Legato alla riforma ginevrina, e alla «ecclesia peregrinorum» per il suo vagabondaggio europeo, fu uno degli ultimi martiri della Riforma in Italia: Giacomo Bruto (1551 - 1591) di Villanova d'Asti. Inquieto, bramoso di cultura e d'indipendenza spirituale, può ripetersi di lui quanto il Croce scrisse di Giordano Bruno, ritornato in Italia quasi affascinato dal martirio, per non avere voluto accettare la disciplina di Calvino.
A Ginevra il Bruto vi era stato ancora ragazzo, condottovi dal suo maestro di latino, Sebastiano Visca, calvinista, andatovi per acquistare libri di argomento religioso. Forse per volere della famiglia vestì l'abito degli agostiniani, fra i sedici e i diciotto anni; ma dopo aver studiato retorica e logica a Parigi, si stancò della teologia «piena di migliaia di errori» e si rifugiò a meditare in un monastero del versante adriatico. Riprese - com'egli racconta nel memoriale presentato agl'inquisitori - a vagare per l'Europa. Fu a Ginevra, ma non riuscì ad accettare le severe disposizioni per iscriversi all'Accademia, e poi nell'Italia meridionale, in Sicilia, Spagna, Portogallo. Dovunque era possibile, entrava in contatto con protestanti. Infine si ridusse a Palermo, dove aprì una scuola di latino. Quivi, nonostante la grande retata di luterani e calvinisti, e le severe condanne del 1568-'69, gli eterodossi non erano del tutto scomparsi ed egli entrò in rapporto con alcuni di essi. Scoperto e processato, il 24 agosto 1589 sottoscrisse l'abiura delle dottrine professate. Ebbe la condanna a dieci anni di remo nelle regie galere e poi ad essere rinchiuso in carcere per tutta la vita.
Trascorso un anno di sofferenze nella galera di Cesare La Torre, inviò un memoriale agl'inquisitori, dove con grande lucidità e in pochi tratti, dà ragione alla sua fede. Le idee calviniste, più volte rimosse, avevano fermentato nel suo profondo ed egli ne faceva ora aperta professione. In questo memoriale le proteste di carattere religioso-sociale, qua e là accennate nelle relazioni concernenti altri calvinisti isolani, si appuntano con veemenza contro l'organismo ecclesiastico e contro il parassitismo degli ordini monastici, i quali, spingendo all'ozio, ai vizi carnali, alle ambizioni, alle rapine, a togliere «il pan di bocca ai derelitti orfani, pupilli e vedove», offendono la Maestà divina e la provocano a flagellare il mondo. Si scaglia poi contro la messa per i defunti, una scoperta mercanzia del papato a danno della povera gente. Infine, riguardo al sacramento dell'eucaristia, afferma che l'ostia è «puro pane presentato al popolo ignorante in memoria dell'amara passione di Gesù Cristo».
Il 10 luglio del '90 il Bruto fu condannato a morte, ma la sentenza fu eseguita soltanto dopo un anno, il 28 ottobre del '91. In questo anno teologi e confessori gli dovettero stare attorno per persuaderlo dei suoi errori. Ma egli era - come scrive l'autore della Serie dei rilasciati - deciso a mettere la vita «per tutti gli errori di Lutero», e andò coraggioso al supplizio, avendo forse davanti agli occhi l'episodio da lui narrato nel suo primo processo, di un luterano predicatore, il quale, condannato a Roma, non volle abiurare neppure sul palco della morte. Forse egli aveva assistito a quella morte eroica e ne era rimasto colpito per sempre. E gl'inquisitori annotarono anche questo fra i capi d'accusa: aveva voluto dire che chi muore per sostenere la fede di Lutero e Calvino è un martire.